Intervista a Francesco Moser
Era il 1981 quando finalmente convinsi mia madre a regalarmi la prima bici da corsa, una Bianchi a 10 velocità e ruote da 24. A un costo elevato per l’epoca, ti ci compravi sei o sette Graziella, ma io avevo occhi solo per la piega da corsa. Arrivò, saltai subito in sella e dopo pochi chilometri in presa bassa mi immaginavo il più forte ciclista italiano di quel periodo.
Chi? Ovvio, Francesco Moser…
Prendete oggi quell’ex-ragazzino e dategli la possibilità di intervistare il suo mito: che ne viene fuori? Il panico, ecco che ne viene fuori.
Una prima telefonata a metà mattinata, convinto di stare chiamando la figliola del campionissimo perché avevo capito a lei appartenesse quel numero che il sempre gentile Igor mi aveva girato. Rumore infernale di vento, provo a presentarmi ma non ho certezza dall’altro capo mi abbiano sentito; poi una voce maschile, familiare, al cui cospetto anche Eolo ammutolisce: “Mi chiami fra una oretta, sono in bici”.
Oddio! E’ il numero di Moser! Ho appena parlato col mito in persona!
Conto i minuti, ne lascio passare qualcuno in più dei sessanta canonici e richiamo, ben sapendo stavolta che a rispondermi sarà Moser, quindi calma e sangue freddo. Mi ripeto che ho fatto interviste per anni, so che campione lo è non solo sui pedali ma anche per disponibilità e gentilezza; però penso avrà mille impegni e non potrà certo perdere tempo dietro un signore di mezza età che si emoziona come Cenerentola al ballo. Rapida presentazione di rito, mi risponde che si, l’intervista la facciamo, lo devo richiamare nel pomeriggio.
Visto? E’ stato facile.
Per niente invece! Crisi da foglio bianco, tutte le domande che avevo preparato mi sembrano solo un enorme cumulo di sciocchezze, non mi viene l’ispirazione per qualcosa che non sia già stata chiesta o scritta; il tempo scorre, l’ora dell’appuntamento si avvicina e io inizio febbrile a selezionare domande e far collegare questa maledetta attrezzatura per la registrazione della telefonata, che si rivelerà poi pessima a dispetto dei costi e della gran marca.
Scocca l’ora X, chiamo e dall’altro capo “Pronto, pronto: eh ma non sento, le parole vanno e vengono, non capisco…”
Mi crolla il mondo addosso, come faccio a registrare se qui non si sente niente? Io questa roba digitale non so usarla e ormai è tardi per recuperare il mio vecchio ma sempre affidabile registratore a cassette. Confido nella pazienza del mio campione e spero non sbotti come avrebbe ben diritto di fare.
In realtà una volta è sbottato, ma ha proseguito stoico. A fine intervista ho tirato via i cavi, mi sono scusato per l’inconveniente tecnico e, forse sollevato dal fatto avessimo finito, Moser non me lo ha fatto pesare più di tanto. Almeno a parole, sono sicuro avrà pensato più volte che appendermi a testa in giù in un suo vigneto non sarebbe stata una cattiva idea.
Impossibile non conosciate Moser; riassumo coi numeri, perché solo loro possono spiegare la carriera di questo campione: 273 vittorie su strada e tra queste tre vittorie consecutive alla Parigi-Roubaix, una Milano-Sanremo, due Giri di Lombardia, due Campionati del Mondo e altrettanti Campionati Italiani, un Giro d’Italia e il famoso Record dell’ora a Città del Messico.
Ed è proprio dal record sull’ora che partiamo, anche se, sia chiaro, quello di Wiggins di pochi giorni fa non è paragonabile, né per situazioni né per le modifiche ai regolamenti.
Iniziamo da un numero: 54,526. Ci sono voluti 31 anni per tre chilometri.
Sono cambiate tante cose, dalle bici alla metodologia di allenamento; le bici che usano adesso vanno molto meglio di quelle che usavamo noi. Però non dimentichiamo che Boardman fece i 56 ma poi tutto è stato rimesso in discussione dai nuovi regolamenti. Diciamo che è così, ma non è giusto; il record di Wiggins è di poco superiore a quello di Indurain, ma con i regolamenti nuovi è come se fossimo tornati indietro al punto di partenza e stiamo assistendo a dei doppioni.
Prima ogni corridore doveva andare forte ovunque, adesso le squadre sono strutturate per esaltare le singole capacità. Esiste ancora il ciclista completo?
E’ la specializzazione questa, e il fatto di avere questa specializzazione non permette più che ci siano corridori capaci di vincere su tutti i terreni. Noi passavamo dalla strada alla pista, dalle corse a tappe alle corse in linea e ce la cavavamo un poco dappertutto. Adesso non è più così così. E poi non eravamo in tanti nel riuscire a fare risultati dappertutto. Per dire, Wiggins ha vinto anche il Tour ma nelle classiche non ha mai vinto molto.
Il ciclismo è fatica, il suo fascino e la sua maledizione. Le nuove leve sono sempre meno, forse distratti da altro, e non accettano di buon grado una vita di sacrifici come quella sui pedali impone. Cosa direbbe a un ragazzo che sogna il mondo professionistico?
Sono cambiate tante cose, è la vita che è diversa, maggiori distrazioni, possibilità e così via. Di conseguenza sono cambiate mentalità ed esigenze e credo che i paragoni a distanza alla fine non hanno senso. Il raffronto lo puoi fare coi risultati nudi e crudi: dici uno ha vinto cinque corse, l’altro quattro, l’altro dieci. L’unico paragone è quello dei numeri, quello sul corridore di oggi o di 30 anni fa non è possibile, troppe cose, ripeto, sono cambiate. Poi ragazzi che ci provano ci sono, ma non tutti ci riescono. C’è che si sacrifica. E’ chiaro che chi sceglie di fare questo sport deve sapere che è uno sport duro, difficile: ci vuole una dedizione totale. Non basta la metà o due terzi: ti ci devi dedicare con tutto te stesso. Chi vuole fare una carriera ciclistica deve dire “Per 10 o 15 anni faccio una vita come un frate, una vita monacale e faccio il corridore”, insomma.
Tra i corridori attuali vede un erede di Moser?
Ce ne sono ma poi si perdono per strada, lo abbiamo già visto. Ma succedeva anche una volta, non è certo un problema di adesso. Il punto non è essere o meno eredi di Moser, ma avere la voglia di sacrificarsi fino in fondo, ci vuole grande motivazione. Non è che tutti quelli che cominciavano erano matematicamente campioni: sarebbe troppo facile.
Lei non ha mai corso al risparmio; per questo alla fine ha raccolto meno del seminato? Anche se il raccolto è stato comunque copioso…
Quelle erano le condizioni e quello il mio modo di correre. Non aveva senso per me fare numero in gruppo.
Oggi i ciclisti sono in costante contatto con le ammiraglie, i direttori sportivi decidono strategie e impongono scelte. Quando lei correva il ciclista era solo…
Si, ormai hanno tutti strumenti per misurare velocità, potenza, battito cardiaco. Noi pedalavamo con l’esperienza, le sensazioni: sentivi se avevi la gamba giusta, se era la giornata giusta. Oggi il corridore ha a disposizione degli strumenti che gli dicono se sta bene, se sta male, sa va forte, se va piano. Ma è tutto diverso, l’ho detto: solo la fatica resta sempre uguale. Forse la differenza, se vogliamo trovarne una, è che il corridore prima era forse più completo; e anche per la gente che guardava dava più soddisfazione vederci impegnati allo spasimo.
Al Moser che correva a testa bassa avrebbe fatto piacere avere chi gli diceva cosa fare e cosa no?
Beh, alla fine si sarebbe trovato un compromesso. I corridori adesso nascono già con questo spirito, con queste tecnologie e già sanno cosa li aspetta e cosa devono affrontare; e subito si adattano, immediatamente. Ed è normale, se uno vuol correre deve adattarsi alle situazioni che ci sono . O sei fortissimo e puoi passar sopra a tutti e tutto ma… non succede.
Pochi mesi fa l’Astana si è vista ritirare la licenza Pro Tour, restituita a stretto giro come nulla fosse…
Le squadre si sono date tutte queste regole ma alla fine si sono un po’ incartati da soli perché qui si va a cercare il pelo nell’uovo. E poi devono fare marcia indietro perché si accorgono di aver sbagliato. Hanno fatto delle regole troppo stringenti; una volta i regolamenti erano più larghi e, per dire, anche tutte le misure delle bici che hanno fatto e le restrizioni sono una cosa fuori dal mondo perché dovrebbero farle in base alle misure dei corridori. Non possono obbligare uno che è alto un metro e settanta ad andare in bici come fosse uno che è un metro e novanta. Ma anche con tutta questa storia dei controlli hanno esagerato. Negli altri sporti non li fanno, mentre invece sembra che il ciclismo sia la patria di tutti i mali.
Il suo amico Pietro Barilla disse che lei era l’uomo del sogno e lei rispose che tutta la sua vita era un sogno.
Si, è chiaro che se non avessi corso in bicicletta come ho corso non sarei stato conosciuto come ora. Grazie alla bicicletta sono riuscito a realizzare i miei sogni, una carriera importante; ancora oggi anche se ho smesso è viva. Si può dire che il sogno continua.
Parigi Roubaix, la gara dell’inferno. Tre vittorie consecutive, il pavé affrontato come fosse asfalto.
Il pavé bisogna affrontarlo senza remore, senza pregiudizi: il percorso è quello lì e lo devi fare. Poi penso che ci sono corridori che si adattano per le caratteristiche fisiche e ci sono corridori che proprio non riescono a fare la Parigi Roubaix proprio per le loro caratteristiche. Non devi averne paura perché poi alla fine la paura è un discorso che si incatena. Prima di tutto se uno ha muscolatura potente e il fisico che rende allora sul pavé tutto viene più facile. Se invece sei sempre a tutta chiaramente è difficile poi fare il resto.
Il cannibale era davvero imbattibile o si correva con in testa l’idea che un secondo posto dietro Merckx era comunque una vittoria?
Lui era forte, certamente, e aveva una squadra forte; questo gli facilitava il compito. Poi però è anche vero che quando correva non ha avuto molti avversari davvero forti, in grado di batterlo. Succede sempre nello sport, un periodo in cui uno primeggia, ognuno coi suoi perché.
Il suo soprannome è lo sceriffo, per la capacità di tenere in riga il gruppo e il naturale carisma dei grandi uomini. Qualche volta non sarebbe stato meglio esporsi meno? Il suo rifiuto di partecipare al Giro non fu digerito per molto tempo…
Quelli erano i tempi, quelle le condizioni. Tutti noi a pensarci dopo forse cambieremmo qualcosa o la faremmo meglio di come l’abbiamo fatta. Ma in quel momento era quella la cosa giusta da fare, inutile guardare indietro tanto quello che è fatto non lo possiamo modificare. E poi quello era il mio carattere, nessun compromesso, volevo correre così, e così ho fatto (ed è per quello che tutti noi ci siamo appassionati al ciclista Moser, ndr)
I francesi raramente amano un ciclista che non sia della loro terra, ma Moser si. Tante gare vinte in terra d’oltralpe ma una sola partecipazione al Tour.
Il Tour l’ho fatto una volta sola, è vero; noi facevano il Giro e dopo era difficile fare anche il Tour. E preferivo fare le corse in Italia. Forse adesso penso che avrei dovuto fare qualche Tour in più, ma anche oggi se guardiamo i corridori o fanno uno o l’altro, pochi fanno Giro e Tour nello stesso anno. E’ pesante, ma alternando si può fare. Però, l’ho detto, alla fine preferivo le gare in Italia, preferivo il Giro.
Nel libro “Ho osato vincere” racconta di come Colnago non prese bene il suo rifiuto di usare le sue bici, leggendo sembra quasi ne sia nato un litigio.
Non ho mai corso con bici Colnago ma non abbiamo litigato in senso letterale. Avevo le mie biciclette, non correvo con le altre. Poi siamo sempre stati avversari, lui aveva Saronni, Baronchelli, i mie avversari insomma, ma non è stato un vero e proprio litigio.
Shimano, se la memoria non mi inganna lei fu il primo tra i grandi atleti a usare una bici montata con componenti giapponesi. Una volta mi raccontarono che fu per far piacere a un amico…
Si e no. In tutte le cose ci sono dei momenti in cui ti fanno delle proposte e tu valuti se accettare o meno. Se non l’avessi usato io magari lo usava un altro, ma non è che Shimano poteva rimanere fermo perché non lo prendevano i corridori. Ho avuto la fortuna di poterlo usare e adesso basta guardare Shimano cosa è diventata, l’azienda più grossa e importante per i componenti bici. Ora che l’abbia montato per fare o meno un favore è un dettaglio di poco conto alla fine. Alla Campagnolo dissi “Ho avuto delle offerte, posso rinunciare a qualcosa ma non a tutto; se volete corro con i vostri gruppi sennò voi fate il vostro gioco io faccio il mio”. Non è stata una scelta emotiva, dalla sera alla mattina. E’ stata valutata e pesata.
Nella sua carriera c’è una cosa che rimpiange o che vorrebbe fosse andata diversamente?
Penso che se ricominciassi farei qualche volta in più il Tour: ma non è detto che poi le cose sarebbero andate meglio; chissà forse sarebbero andate peggio. Però mi rendo conto che se avessi fatto qualche volta di più il Tour e qualche Sei giorni in meno forse sarebbe stato meglio. Ma ai nostri tempi era così.
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Sono Fabio Sergio, giornalista, avvocato e autore.
Vivo e lavoro a Napoli e ho dato vita a questo blog per condividere la passione per la bici e la sua meccanica, senza dogmi e pregiudizi: solo la ricerca delle felicità sui pedali. Tutti i contenuti del sito sono gratuiti ma un tuo aiuto è importante e varrebbe doppio: per l’offerta in sé e come segno di apprezzamento per quanto hai trovato qui. Puoi cliccare qui. E se l’articolo che stai leggendo ti piace, condividilo sui tuoi social usando i pulsanti in basso. E’ facile e aiuti il blog a crescere.
Bellissimo articolo rievocativo ma non agiografico!
Da profano: nelle foto di Moser ho la sensazione che la bici gli vada ‘corta’ come se fosse una taglia o due inferiore alla sua. Ovviamente non sarà così (ci mancherebbe altro) ma qualcosa é cambiato sulla ‘stare in bicicletta’ ai nostri giorni? O é solo una mia errata sensazione?
Grazie!
Grazie Adriano; non agiografico ma passionale si. Il mio è un blog, tenuto da un appassionato che si rivolge ad altri appassionati e sinceramente mantenermi asettico non mi piace. Oltre al fatto che parlando di e con Moser mi sarebbe stato impossibile.
No, la bici non è piccola ovviamente. La modifica più importante dell’era moderna è la forma della piega, per questo sembra piccola con i gomiti così bassi.
Fabio
Ciao Fabio, era un po’ che non ricevevo le notifiche del Blog e vedo questo bellissimo articolo solo ora. Complimenti!
No ricordavo che Moser fosse stato tra i primi ad adottare componentistica Shimano e la sua risposta è davvero chiarificatrice di quale fosse il clima dei tempi. Sul fatto che all’epoca i giapponesi facessero cambi più performanti di quelli della nota casa di Vicenza ci sono pochi dubbi, che a noi campagnoli piaccia o meno. Certo che sorprende che in un campo dove i decimi di secondo contano molto Campagnolo potesse contare sulla lealtà di tanti pro, lealtà che è significata la loro sopravvivenza.
Eh già, pare ci sia un problema con le iscrizioni per cui non partono le notifiche a ogni nuova pubblicazione. Me ne sono reso conto la scorsa settimana, appena Antonello rientrerà da una vacanza gli chiederò di occuparsene. In ogni caso consiglio di ripetere l’operazione di iscrizione, di fatto a me mancano all’appello almeno un centinaio di iscritti…
Disgraziatamente questa nuova piattaforma richiede continui aggiornamenti e modifiche e alcune cose si aggiustano altre si rompono 🙁
Su Campagnolo c’è tanto da dire: molto gli dobbiamo, molto hanno sbagliato, almeno come scelte commerciali. Restano componenti insuperabili per bellezza e tecnologia, ma alcune scelte strategiche mi hanno sempre lasciato perplesso…
Fabio